La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente

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19 agosto 2021

La politica e il silenzio

Se la politica viaggiasse sul filo del silenzio, San Marco Argentano farebbe scuola. Purtroppo, però, quando incombe il silenzio la politica svanisce, evapora, si dilegua. E ne ha ben diritto. Perché nel silenzio essa non ha ragion d’essere. La politica è discussione, ragionamento, confronto; essa vive nella comunità e nella comunione, si nutre di dissenso per la ricerca del consenso, penetra la società per la ricerca delle vie di sviluppo e di crescita integrale; interroga l’uomo per sorreggerlo nelle necessità e nei bisogni; traccia le fondamenta per costruire il nuovo al passo con l’evoluzione dei tempi che scorrono poggiando sulle spalle delle nuove generazioni.

Invece, a quanto pare, il silenzio la fa da padrone. E ciò non è buon segno. Nel silenzio si rimugina, si cova, si trama; spesso ci si chiude in se stessi ingravidando il proprio sé fino ad amplificarne oltre misura le proporzioni e il valore; il silenzio alimenta la fantasia e l’immaginazione conducendo verso l’astrazione dal mondo reale; il silenzio porta alla svalutazione, allo svilimento e alla negazione dell’altro. Il silenzio è il dio dell’omertà e di tutto ciò che essa comporta e nutre. Il silenzio, in pratica, è la peggiore offesa contro l’anima della società, come la parola ne è l’esaltazione.

Certo, nessuno rimpiange certe sgroppate per le vie cittadine e per le contrade addomesticate dove molti rimpiangevano di non essere quadrupedi ferrati per magnetizzare l’interesse generale e snobbare, senza garbo alcuno e con evidente sicumera, quei pochi che non condividevano le smargiassate del volgo urlante.

Tra i due estremi, tuttavia, esiste uno spazio enorme, un’area infinita e disponibile che definiremmo “di equilibrio”, in cui troverebbe abbondantemente posto la POLITICA, di cui oggi si avverte tanto la necessità e non solo a livello locale. Ci rendiamo conto che gli esempi provenienti da altri livelli di impegno non sono decisamente edificanti, ma nessuno ci impone di imitare pedissequamente taluni capiscuola che hanno condotto le regioni, come ad esempio la Calabria, sulla china di una decadenza di cui certamente non detiene il primato, ma occupa un buon posto in graduatoria.

Qui, in loco, dove si pretende di vivere una dimensione socioculturale importante, piuttosto che rivelarsi poveri gregari per discutibili carriere “politiche” sovracomunali, si potrebbero impiegare le proprie energie per lo sviluppo della città, che, da un po’ di tempo, non mi pare che goda di ottima salute. Anche egoisticamente parlando, da persone al seguito non si cresce poi tanto: le briciole o gli avanzi che cadono dalla tavola non hanno mai ingrassato nessuno. Salvo che non si abbia una dimensione così ridotta da non necessitare di molto. Pochi esseri viventi vivono ingrossandosi con il parassitismo, ma qui entriamo nel campo delle sanguisughe e la cosa ci riguarda ben poco o non ci riguarda affatto.

Dopo aver detto tutto ciò, dovremmo aver preso coscienza del fatto che “fare politica” in una piccola comunità come la nostra significa una cosa ben diversa dal tirare a campare sperando nel compare. Il compare, quando c’è, deve mettersi al tuo servizio e non indurti a fare l’esatto contrario. Ma il tempo dei compari generosi è finito, anche perché, se ben ricordo, quelli fattivamente generosi non erano compari, erano punti di riferimento politico, ideologi di un pensiero filosofico (qualunque esso fosse) riconoscibili in un emblema dall’indiscusso valore storico e sociale, autori e fautori di presìdi di sviluppo territoriale che altri hanno proditoriamente distrutto per ragioni poco nobili; erano talvolta amici, talaltra compagni, persino camerati, ma giammai compari.

Mi si dirà che i tempi sono cambiati. È vero. Lo sono tanto che gli emblemi hanno cambiato aspetto: sembrano stemmi padronali o di famiglia. I simboli, dalla impossibile interpretazione simbolica o ideologica, nascono come i funghi dai tavoli di disegno dei creativi pubblicitari (nella migliore delle ipotesi); addirittura, horribile dictu, qualcuno è stato estratto, in maniera naif e rozzamente disinvolta, da una marca di biciclette dei primi del novecento. Per ricondurli a qualcosa di concretamente riconoscibile bisogna scrivere in calce il nome del padrone. Ciò detto, vogliamo renderci conto che dove c’è un padrone ci devono essere necessariamente dei servi, dal momento che il primo non può sussistere senza i secondi? Sarebbe una contraddizione in termini.

Orbene, dopo tutta questa rievocazione che ha del popolaresco e del drammatico allo stesso tempo, ci vogliamo chiedere quando qualcuno si deciderà a dare corpo al fantasma della politica in questa città? C’è chi ancora ne ha memoria oltre che nostalgia.

Beninteso, ciò non vuol dire riesumare vecchi arnesi incrostati dalla patina del tempo, nell’epoca dell’elettronica e dello smartphone. Sappiamo tutti che la manopola sul televisore è passata di moda come la prova di alfabetizzazione per i consiglieri comunali. La gente, ormai, si intende di domotica e di comandi a distanza. Oltretutto, si intende di comandi vocali, per i quali, guarda caso, è necessario l’uso della parola pronunciata chiaramente, non il silenzio.

Cerchiamo, allora, di rianimare la città rieducandola ad un respiro politico che le manca da tempo. San Marco è sulla soglia dell’asfissia, anche perché costretta territorialmente (complice l’interruzione della dimenticata strada di Cavallerizzo) nella morsa delle comunità viciniori alcune delle quali respirano modernità a pieni polmoni. Distribuiamo ai giovani le armi dell’interesse verso una vita pubblica completa, attraente, significativa e gratificante, rendendo la partecipazione ad essa utile, opportuna ed indifferibile.

Basta dire a noi stessi: «Quanto siamo belli!» Altrimenti moriremo per implosione.

Recuperiamo il gusto della critica, quella costruttiva. Utilizziamola come elemento propulsivo, come base dialettica per una revisione coraggiosa di noi stessi e della nostra storia. Questa è la significazione profonda della parola «crisi», che della critica è matrice primaria.

Se ciascuno di noi riuscisse ad entrare in crisi con se stesso, certamente svolgerebbe il proprio ruolo con maggior consapevolezza, con minori certezze gratuite e con maggior considerazione dell’altro.

Perché bisogna sempre fare i conti con l’altro. In fondo, è l’altro quello che andrà a votare.

Luigi Parrillo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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