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San Marco Argentano - Polis

 

 

 

22 giugno 2014

“Non lasciatevi rubare la speranza”

 

Spianata di Sibari. Lì, dove una manciata di secoli prima di Cristo approdarono i coloni greci e diedero una nuova svolta alla civiltà e alla cultura del posto, è atterrato, ieri mattina, il pontefice giunto dall’altra parte del mondo per recare il suo messaggio ad una regione tra le più povere d’Italia.

Una povertà, quella calabrese, ammantata nei panni laceri della cultura del pressappoco, dai cui strappi traspare il sussiego di una classe dirigente inadeguata nella sua accezione generale (tranne rare eccezioni edificanti); si scopre - tra silenzi omertosi e vili acquiescenze - un substrato di tollerate illegittimità; rumoreggia la innocente (?) creduloneria di masse trascinate - da sempre - di qua e di là secondo volontà spesso non condivise, ma assecondate.

Alla folla oceanica, preoccupata in gran parte, da quanto si è visto, di comparire in una qualunque inquadratura della più insignificante telecamera di qualche altrettanto insignificante emittente televisiva di estrema periferia, Papa Francesco lanciava uno dei suoi messaggi più forti: «Non lasciatevi rubare la speranza!»

Una frase troppo lunga per una folla distratta. Bastava soltanto che dicesse: «Non lasciatevi derubare!»

Cosa rimane, oggi, della visita pastorale di Francesco, vescovo di Roma e capo del cattolicesimo, nel cuore della Calabria? Quale impronta crismale la lasciato nella marea umana spalmata dall’evento sulla piana di Sibari, che rimanga come sigillo permanente, una volta ammainati striscioni e bandiere e riposti nei cassetti cappellini a fazzoletti gialli?

«Non lasciatevi rubare» non solo la speranza, ma qualsiasi cosa vi si possa sottrarre, che non sia soltanto tangibile fisicamente. Penso alla dignità, ai diritti, al futuro, alla salute, al benessere generale, alla sicurezza, e via di questo passo. Il grande palco che ieri biancheggiava sulle rive dello Jonio, era il pulpito virtuale che sintetizzava, nelle sua linee scarne, gli intagli lignei o le sinuosità marmoree dei pulpiti di periferia, dai quali spesso si profonde più retorica che precetti.

Francesco va dritto all’anima, e questo è l’insegnamento. Egli usa parole chiare e chiama le cose con il loro nome: questo è coraggio. Indica e stana i colpevoli: non collude. Vive la fede attraverso l’umiltà e la modestia: è l’esempio.

Una visita fugace, un lampo. A distanza dal cerchio delle persone che contano, le quali, probabilmente, avrebbero ambito essere loro a dargli la “benedizione” per la venuta in Calabria, al fine di consacrare quella che sta diventando una nuova religione parallela dalle divinità inamovibili.

Interpretiamo anche così la visita di Francesco. Consideriamola una presa di distanza da ambienti troppo chiacchierati per essere frequentati con disinvoltura. Leggiamolo come un messaggio rivolto a quanti non si fanno scrupolo di fiancheggiare uomini delle istituzioni non perfettamente in linea con gli insegnamenti evangelici. Non obblighiamo nessuno a scacciarli da casa, ma dal tempio si!

È forse il tempio, oggi, accanto ad una scuola di periferia che si affievolisce di giorno in giorno per convinzioni deboli e non costantemente affermate, l’istituzione che può rappresentare un correttivo alle devianze socioculturali, che mortificano l’immagine della società contemporanea. L’importante è che le chiavi delle sue porte siano custodite in mani forti e sicure, scevre dalla tentazione di asservirsi al potere comunque affermato e comunque espresso.

Con Francesco, l’esempio non manca.

Luigi Parrillo