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12 maggio 2019
Travestiti
Chi, per mostrarsi in pubblico,
avverte la necessità di travestirsi, la dice lunga sulla genuinità del
personaggio o, se volete, del proprio io. Se si è attori, va bene. Ma per chi
non lo è, ricorrere al mezzuccio plebeo di abusare, attraverso l’uniforme di
rappresentanza, dell’immagine e dell’autorevolezza (oltre che della stima e
del favore popolare) di una istituzione militare o paramilitare dello Stato
italiano, significa nascondere l’intimo bisogno di mimetizzarsi in essa per
occultare agli occhi dei semplici le macchie delle proprie colpe o la
fisionomia non proprio adamantina di ciò che rappresenta.
A me, per esempio, non è mai venuto in
mente, solo perché ho insegnato storia per qualche decennio, di presentarmi a
scuola calzando la feluca di Napoleone o il berretto di Garibaldi. Mi
avrebbero preso per folle, deriso e messo alla berlina, a meno che non fosse
carnevale.
Né gli allievi mi avrebbero preso in
grande considerazione, né l’opinione pubblica, e le famiglie in particolare,
mi avrebbero affidato i propri figlioli. Avrei rappresentato un fenomeno di
assoluta negatività da mettere al bando e sarei stato inseguito per strada da
frotte di ragazzini urlanti, in preda alla foga di quella ferocia
satirico-deridente di cui soltanto essi sono capaci.
Ma gli adulti hanno meno pretese in
questo senso: per un ventennio hanno applaudito dittatori che, di volta in
volta si atteggiavano ad agricoltori trebbianti, a campioni dello sci a dorso
nudo, a sterratori, ad amanti ineguagliabili o persino a modelli di
capofamiglia e via dicendo. L’archivio fotografico di Alinari
ce ne fornisce innumerevoli esempi che sono, più che immagini, veri e propri
trattati di critica storica.
Ora non vorrei che la Storia si ripetesse, perché se la Storia
si ripete due volte - diceva Karl Marx - la prima
volta si manifesta come tragedia, ma la seconda si ripropone
inequivocabilmente come farsa. Poiché di farsa si tratta quando osserviamo,
ai giorni nostri, personaggi fasciati nei panni di chi ha faticato per
indossare un’uniforme, che oggi stona se su di essa si esibisce la faccia di
chi non ha mai speso un’ora di lavoro per guadagnarsi da vivere. Specialmente
quando, nonostante tutto, è difficile pensare che non abbia le risorse
economiche per comprare un vestito decente, a meno che non stia mettendo del
denaro da parte per restituire il maltolto di cui la Lega Nord si è
proditoriamente impadronita a danno dello Stato italiano, che allora (per chi
non conosce la Storia o ne ha perduto memoria) veniva apostrofato con il
titolo poco onorevole di “Roma ladrona”.
Sarebbe stato meglio ammantarsi del
tricolore italiano, quello stesso che, anni fa, è stato vilipeso e bruciato
dalle camicie verdi nelle esagitate e fomentate piazze secessioniste del nord
est d’Italia.
Stupisce la sicumera livida e
violenta, che folle di creduloni (tra i quali emigranti o figli di emigranti
per lo più “terroni”) applaudono con l’entusiasmo dei semplici, il cui
pensiero non vola al di là del proprio cappello, quando lo indossano.
È questo consenso che lascia
interdetti. E ci sconvolge questo irregimentarsi
dietro le grida scomposte di un invasato come se fosse posseduto dal
fanatismo per ciò che probabilmente ritiene essere una religione, di cui si
sente ispiratore, fondatore e sacerdote. E non è escluso che, prima o poi,
possa inventare travestimenti a tale scopo ed imporne l’uso alle schiere di
“fedeli" acriticamente al seguito, i quali non hanno mai conosciuto, né
sentito parlare, del Tempio del Popolo di padre Jones.
Spesso si muove travestito da
popolano, da anonimo della strada (benché circondato da una nutrita scorta
armata). Si erge su piedistalli affollati non prima di aver cancellato, con
qualsiasi mezzo, il dissenso, garbato o non. Urla e minaccia anatemi. L’état c’est moi!
Sulla scorta di tali fenomeni, piccoli
emuli di periferia scorrazzano in provincia esibendo lo stesso ghigno livido,
che ne denuncia la dimensione autentica. Sovrani in sedicesimo, sono
circondati da cortigiani di altrettanto modesta caratura. Sbiadite caricature
di se stessi che, purtroppo, riescono ad incarnare il ruolo di finti tribuni
della plebe, acclamati e vituperati allo stesso tempo, ma comunque sostenuti
per povertà di spirito e di cultura.
Nostalgici di un medioevo da operetta,
immaginano di saper parlare alla pancia dei poveracci, dei quali riescono a
stimolare soltanto il segmento vuoto del colon retto. Eppure fanno rumore; lo
stesso rumore che confonde e disorienta chi ci sente da un solo orecchio
senza percepirne minimamente il fastidio e che viene scambiato per suono,
come il canto delle sirene che porta crudelmente i marinai a sfracellarsi
sugli scogli.
E ci sarebbe ancora tanto da
osservare. Purtroppo, in poche righe non si possono allargare tanto le
metafore. Questo sarà compito degli eventuali lettori, se ne avranno voglia e
se sapranno farlo con l’obiettività necessaria. Diversamente, sarebbe cosa
buona quella di non rivolgere il proprio consenso verso questa sedicente
élite da teatro dell’arte: sarebbe come una folle corsa ad occhi chiusi,
senza un orientamento preciso, che si concluderà inevitabilmente col
fracassarsi la testa da qualche parte. Specie se a condurre sarà qualche
aspirante sindaco da “foglio rosa”.
Siamo in periodo elettorale e si sa
che in questi frangenti le esagerazioni e le bugie si sprecano come non mai.
È consuetudine da sempre. Ma è spregevole e per niente onesto dispensare
iperboliche e mirabolanti fantasie, come far resuscitare i morti (leggi:
ospedale atrocemente ucciso da anni) o portare il mare e la spiaggia in
qualche contrada, magari utilizzando un treno ad alta velocità. Abboccare a
queste esche è da sciocchi. È più intelligente piantare l’ombrellone in
giardino o sulla terrazza di casa. Fatto ciò, invitate alcuni di questi
illusionisti a gustare cordialmente un aperitivo sotto il vostro ombrellone;
ma niente di più.
Luigi Parrillo
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