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San Marco Argentano - Polis

 

 

15 ottobre 2014

Un tempo si moriva per un ideale

Nonostante i severi moniti di Papa Francesco, le cronache giornalistiche, ormai, ci sommergono dalla mattina alla sera in un oceano di corruttele reiterate, impunite, sbandierate con sicumera, camuffate da scaltrezza, perpetrate per necessità politiche, confessate e subito dopo ricusate, sussurrate e dimenticate, comunque spalmate a mo’ di maquillage su un esercito di facce toste esibite pubblicamente senza un briciolo di pudore.

Alla mia età, queste cose destano scalpore. E quando verifico che presso alcuni settori della pubblica opinione vengono apprese con leggerezza e accettate con rassegnazione, o giustificate con un sorriso scemo per la serie “lo fanno tutti”, mi sento un uomo fuori dal tempo e dalla storia. E mi spaventa la previsione di un futuro avaro di valori nel quale, stando così le cose, saranno costretti a vivere i nostri figli e i figli dei nostri figli.

Un tempo si moriva per un ideale o per un’idea. Oggi il solo pensiero di morire (o, più semplicemente, di soffrire) per qualcosa, ti fa abbandonare la cosa stessa, quand’anche fosse di tale importanza da pregiudicare la sopravvivenza di un popolo o, restringendo il campo, di una comunità.

Tra le storie che arricchiscono di vicende edificanti l’aneddotica del popolo olandese, si racconta di un ragazzino che, vista una piccola falla in una delle dighe che proteggono dalle inondazioni quelle terre altimetricamente depresse, ha infilato la sua piccola mano tra le pietre della diga, fermando il flusso di acqua gelida fino all’arrivo di qualcuno che riparasse il danno. Il piccolo olandese finì col perdere la mano, probabilmente a causa del congelamento, ma era soddisfatto per aver salvato il villaggio dall’inondazione.

E la storia del nostro Risorgimento è costellata qua e là di episodi di adolescenti e di giovani eroi che hanno immolato la propria vita, non soltanto la mano, per gli alti ideali di cui era infiammata la propria anima.

Oggi, da noi, se qualcuno decide di infilare una mano in qualunque posto, lo fa con ben altre intenzioni. E se vede una piccola falla da qualche parte, impugna con la mano l’attrezzo più idoneo per allargare la falla stessa, vi sistema sotto un contenitore capiente e resistente per appropriarsi di quanto fuoriesce dall’apertura, ne trasferisce il diritto di proprietà, invocando la protezione della legge che non fa obbligo esplicitamente di esporre la targhetta «Divieto di attingere».

Nessuno scrupolo. Nessuna meraviglia. Un paese di furbi è fatto così.

Ciò che stupisce è il cittadino che approva ed applaude. Stira verso il basso, con l’indice della mano, la palpebra inferiore dell’occhio e sorride compiaciuto (ma sarebbe meglio dire “complice”). L’altro, dopo la rituale pacca sulla spalla, gli rivolge violentemente il braccio destro in avanti col pugno chiuso, bloccandone a mezz’aria la corsa col palmo della mano sinistra. E abbandona il campo alla ricerca di nuove fonti.

Perfetto! Ecco l’uomo giusto per un popolo genuflesso.

Luigi Parrillo